Indice della raccolta:
Sulle tracce.
La saccoccia.
Verzweiflung.
Come se.
Ugo e il rospo.
Settembre.
La mia sigaretta.
Un sorso
di coca.
La marea.
La stella
d’ombra.
La rampa.
Una goccia.
Tertium datur.
Shhh...
Parole.
Elementi.
Se fossi Cecco.
Lasciatemi
qualcosa.
Io sono.
Piero e Sofia.
Risulta impresa piuttosto complicata
consistere con sé se sotto il culo
ti frigge un qualche fuoco.
E’ complesso altresì riuscire a smascherare
della frittura il cuoco,
del fuoco, il sadico fuochista.
Me ne sto in giro (dice qualcuno)
con animo d’artista,
ma ad essere sincero
mi sento più un segugio, un bracco,
che tira dietro all’odore della preda
non per stanarne il Vero,
e metterlo nel sacco.
Seguo ogni segno e traccia, anche la più nascosta,
la più frammista di questi afrori marci,
la più esile e fina,
perché piuttosto devo trovare lei
(con dentro quel cuoco maledetto, e il suo apprendista):
la cucina.
Avrei voluto portare via con me un po’ di quella brace.
Ma non per la serata, per ricordare le due ore andate.
A me piaceva lei, lei proprio, la brace e la sua luce.
Dovevamo andare. A casa io e l’amico; a letto lei, l’amica.
Che stava ora spargendo tutti quei tizzoni come una mercanzia,
nel vano del camino.
Li condannava a morte: quel gesto le serviva per farli spegner prima
di quanto ci voleva se fossero rimasti tutti insieme in mucchio, nutrendosi
l’un l’altro.
Erano abbastanza tuttavia, e riuscivano comunque, a quello scambio:
la luce rosso vivo, o rosso cupo, o rosso evanescente dentro il nero, passava
da uno all’altro senza salti, con la continuità di un’onda che si
sposta, e si divide per moltiplicarsi, ma restando lei, la stessa dentro
mille voci, mille sussurri tenui e silenziosi, sommessi, e noncuranti di
quello che accadeva a noi, là fuori...
Avrei voluto portarne un po’ con me, ma non potevo mica tenere una manciata
di tizzoni così, dentro una tasca...o in mano...
Però mi piacerebbe...sempre un po’ di brace nella mia saccoccia,
e un po’di foglie secche e scricchiolanti...che portino con sé (non
saprei come) il loro fruscìo asciutto, un po’ di neve, e della sabbia,
sempre calda...e ancora...un raschio di salsedine, e corteccia (dura di
pino, o quercia, o levigata di salice, o di ontano) e resina, per pungermi
l’olfatto, e pioggia, che mi piova però, dentro la borsa, e non
che me la bagni come una bottiglia senza tappo. E il muschio? muschio secco
e rasposo come del presepe...muschio infìdo e scivoloso, muschio
spugnoso...
Troverei un inguacchio...quattro marciumi organici senza discernimento,
impasto incomprensibile di foglie imputridite che crepitano ancora, ma
di una sabbia umida di granelli neri poco più grossi del residuo
più nero e polveroso di quei carboni inutili e inzuppati, senza
più una luce. Colla resinosa ed indurita a incispare un’erbetta
spelacchiata...la borsa bruciacchiata, zuppa e macchiata...non toccarti
con quelle mani luride...ti sporchi la camicia...
Un po’ come coi sogni la mattina...ho fatto un sogno...ma vallo a riafferrare.
Meglio lasciar stare, quel crepitìo di foglie, la voce della
brace, la sua luce...la neve e il sale...
L’Uomo non è Natura.
Le borse, le saccocce, le ventiquattrore...è roba d’altro genere.
L’Anima è troppo grande, fugge via.
Non ci può stare.
Un momento eterno di infinito rancore.
Odio l’umanità.
La odio senza quello spirito critico che mi suggerirebbe l’acuta considerazione
che in verità ne odio una minuscola porzione.
Odio chi non mi cerca. Se mi cercasse, mi farei negare.
Detesto chi vorrebbe il mio conforto. Detesto tutti quelli a cui lo
ho offerto.
Giuro a me stesso e a chi non può sentirmi, che non offrirò
mai più a nessuno le mie parole di esperienza. Le ho sprecate in
giro attingendo al mio dolore quotidiano. Indietro m’è ritornato
silenzio, e assenza. O tutt’al più, peggio, la presenza assente
e miope di chi sa parlare solo la lingua sorda della sua angoscia, come
se quella fosse l’ unica ambascia, l’unico dolore che il mondo attonito
(da me in quei frangenti rappresentato) si trovi a contenere.
Vi disprezzo. Vi odio.
Oh lo so bene, non sono mica nato ieri.
Lo so bene che sono caduto nella trappola.
Si è che l’odio non è sentimento solo transitivo, come
vorrebbe la comune ottusità delle persone, ordinariamente impegnata
a fottersi nella grammatica.
No...non si odia il prossimo perché si ama se stessi. L’odio
è anche riflessivo, è innanzitutto riflessivo.
Ho passato anni pensando e ripensando la logica dell’amore. Gli schemi
sono elementari, basta saperli guardare e fermarsi, un po’, anche a pensare.
Io son qui che vi e mi odio, perché non mi sento amato. Ma da
anni mi esercito a capirci.
Son là di fronte a voi, che sciorinate queruli le vostre sventure.
E meno queruli sareste, e meno sciorinanti, se mi guardaste in viso: anch’io,
fermo in ascolto attento, anch’io mi porto in cuore il dolore di esistere.
Solo un momento, fate mente locale: non siete soli, il vostro non è
l’unico dolore, né è privilegiato.
Ma voi niente, state lì a fare i filosofi di voi stessi, come
se il sole fosse in cielo solo per girare intorno al vostro trascurabile
petto. Così vi osservo, andare in tondo come falene attorno al vostro
pianeta solitario. Ma come vi volete bene! Davvero. Voi davvero, con raffinata
autocritica, sareste disposti anche ad ammettere che in questo momento,
così difficile, vi dovete proprio coccolare, e poco importa se nel
mio petto lo stesso terremoto ha devastato anche me.
Ma pensateci.
Fermatevi, dico, un momento a pensare.
Voi vi state odiando.
Siete soli nella vostra sofferenza. Il vostro dolore vi isola. Perché?
Perché volete essere unici e speciali, perché non tollerate
di essere piccoli, indifesi bambini che soffrono perché la mamma
non c’è più. Voi quel bambino non volete guardarlo, e così
gli riservate un’obbedienza cieca e senza sbavature. Volete essere perfetti,
come lui vi comanda, perché lui non sopporta, non può pensare
di essere solo un bambino in cerca di cure.
Però dentro il vostro cuore ci guardate, e quella vostra debolezza
prostrata non potete non vederla. Non potete non vergognarvi di voi stessi,
e cominciate a odiarvi.
Tutto tra voi e voi: non avete accennato neanche un momento a mettere
il naso fuori, e ora che lo fate, i giochi sono fatti, vi presentate con
il vostro pezzo preferito, dio come soffro, tu non puoi capire, sono solo,
in questo inferno. E’ la seconda volta che obbedite a quel poppante
che odiate in totale sottomissione: la vostra sofferenza non ha né
porte né finestre, è il vostro attestato di titanicità,
in un delirio di bambinesca onnipotenza siete soli,
nella tragedia dell’esistenza.
Ma non vi preoccupate, ci sono anch’io, soli non vi lascio,
anche io vi odio del vostro stesso odio.
Anch’io come voi odio me stesso,
in questa ubriacatura di universale rancore.
L’anima
si scopre nel ricordo.
La memoria del tonfo
di un sasso
gettato in uno stagno.
Chiama quello stagno poi
con vari nomi.
Comunque
prende a quel punto ad allargarsi,
di cerchio in cerchio.
Ad ogni cerchio nuovo, un breve
e ansioso sospiro di sollievo
per aver vinto ancora una battaglia
contro il nulla.
Ma lo sa, l’anima, lo sa:
è quel nulla lo stagno: più di quel nulla,
perchè il Nulla
resta in ogni caso un luogo,
mentre l’anima lo sente
nel più intimo centro
del suo primo cerchio
(proprio dove andò a tonfare il sasso):
lo stagno non è il Nulla.
Si limita a non esserci:
è il sogno bambinesco che l’anima rincorre
della sua propria Essenza
(per ottener la quale ha dovuto rinunciare all’Esistenza).
All’ennesimo circolo tendente all’infinito
arriva infine l’anima a scoprire il suo Dasein:
d’essere null’altro che il sogno
di se stessa,
un puro immaginare che s’espande
da nessuna parte,
nascente da un Midollo inesistente
nutrito anch’esso del desiderio vano
che il Nulla
sia qualcosa.
Oggi Ugo ha incontrato un rospo.
Ugo è il mio cane, anzi, è il cane di mia madre.
Se ne salivano tutt’e due per la sterrata che porta al cimitero, dove
sta mio nonno.
Ugo è quasi raso terra (tutto peli), non poteva mancare di incocciare
nel rospo, che se ne stava immobile sul ciglio.
Ha costretto mia madre ad arrestarsi ed ha cominciato ad annusare,
a piccoli scatti.
Il rospo è avanzato con un balzo (di poco, non è che
è scappato), facendo indietreggiare Ugo piuttosto perplesso.
Che però è tornato subito all’ attacco ancora più
incuriosito.
Chissà quanto sarebbe durata la scena se ad un certo punto mia
madre non si fosse imposta trascinando Ugo per diversi metri, che lui ha
percorso spazzando la strada con la pancia, e con il muso ansioso rivolto
a quello strano incontro, finché non si è rimesso sulle zampe,
per trotterellarsene via
accanto alla sua divinità personale.
“Un segno di pace...”
Ossimori ad uso delle liturgie.
L’Anima nella quiete
rifugge ogni rimando.
L’idolatrato “accenno” di tanti certosini
non può che farla inqueta:
una promessa non mantenuta ancora.
Dietro la balaustra
che ha vinto sull’ aurora
ginepri e pini
e scogliere e mare,
e il sole di una stagione andata,
in un feriale privo dell’ ancheggio
di creme e di parei.
Resta in questo meriggio
solo spuma e silenzio,
e resta lei.
Mantice delicato,
dormiveglia assente
sulle punte insonni dei suoi seni.
Nulla è promesso: Tutto
è già qua,
soltanto per se stesso.
Rimanda a una risacca che già c’è,
che ora m’accompagna
sul legno sverniciato
di due remi
che raspano le mani.
Senza saperlo dire,
respira il vento
dentro il mio ansimare:
m’alita nella mente
che un alitare esiste...
che soffia solamente
per lenire il mio labbro
inciso
dal sale di Settembre.
La sigaretta se ne sta appoggiata
proprio sull’orlo del mio posacenere,
di coccio blu.
Il fumo via si spande,
nelle sue volute, sempre più larghe e rade,
nell’aria che mi circonda oziosa
(unavia l’altra, la stanza se ne impregna).
Fisso la pagina pensosa
in pausa di riflessione e ritmo,
e prendo questa amante tra le dita,
senza però guardarla.
Così, senza saperlo, la porta
la mia mano alle mie labbra.
Aspiro, a la riappoggio dove stava prima.
Soltanto, un po' più corta.
Eccola lì di nuovo a liquefarsi...a involversi nei rivoli...sinuosa...
Adesso però comincio a fare anch’io la stessa cosa...
Senza sapere
che mi sto godendo questo mio piacere
(sono troppo concentrato nel dovere),
sfiato fuori il fumo che ho tenuto nell’attimo fuggente
in cui la riposavo.
Dalla bocca e dal naso, con la maestria alternante dell’esperto,
fino all’ultimo di una raffica di sfiati,
più convinto di quelli precedenti.
Si va avanti così, io e lei,
silenti ed affiatati
fumando,
ognuno nel suo modo.
La mia sigaretta è una canna di fucile.
Che il proiettile sia lì lì a partire,
è intuibile da quel brillìo fumante proprio sulla punta.
Finché rimane là, è una parte del mondo.
E il mondo è grande e diluente nella dispersione.
Quanti colpi si sprecano, in questo modo ignaro:
anche ad impegnarsi
proprio non c’è questione
di riaverlo,
il fumo che non s è sparato.
Se ne va nel Tutto senza nessun dove
che ci permetterebbe d’ inseguirlo,
per riordinarlo in canna attenti, questa volta,
che non si sdilinquisca via di nuovo,
perdendosi nel Nulla dell’Altrove.
Ho sparato ancora.
Quel brillìo più intenso proprio sotto il naso,
quel rosso-brace senza più il suo fumo
faceva da pendant al suo tipico amaro
che si spargeva in bocca.
Il mondo e il mio palato
si sono accorti insieme del colpo
ormai sparato.
Mi è bastato tendere le guance
e tutto quel disperdersi sinuoso si è messo sull’attenti
per introdursi (in fila indiana)
dentro la precisione netta, di una sigaretta.
Che soddisfazione...ho raccolto il disordine del Cosmo
ottenendone l’ordine più esatto
che l’uomo abbia pensato: quello di una retta.
(Non sono certo molto originale...
tanto spesso il caos dell’universo non se ne va disperso,
per risolversi in canne di fucile).
Adesso però anch’io ce n’ho una mia, di retta...
(...mi permette di chiamarla così, gentile signorina?...
La sto osservando, sa, nel suo vago sorriso
che è già un poco...
in pizzo lì seduta con la sua borsetta,
ogni tanto sperduta nel minio della brace che le avvampa in viso,
(e come (vedesse...) l’imbelletta...)
Vedo che anche lei ha il mio brutto vizio...
gradirebbe del fuoco?...).
E’ quanto dire...la mia Retta mi fa palpitare: nel cuore e nelle arterie...
Con lei...raccolgo l’entropia dell’Universo (come tanti amanti usano
fare)
per succhiarmela dentro
fino al più ansimante alveolo polmonare...
Mi entropizzo anch’io...ridendo
del paradosso che mi stia servendo
di una signorinella pallida, così ordinata in quel suo fumare...
...Che insomma mi eredito il Bailamme oncologico del mondo,
metto in connessione due casini...
utilizzando l’ordine euclideo di un passaggio esatto come il primo
assioma.
Come chi si spara.
O chi,
dopo una vita di miliardari sperperi di seme,
utilizzi la retta (la più esatta)
di quel suo fucile
per arrivare finalmente a segno,
e generare ancora
(che ironia)
miliardarie occasioni
d’Entropia.
Ego sum qui sum
Il mio amico è morto, si è suicidato buttandosi dalla finestra.
In verità non era esattamente un mio amico, era il cugino di
un mio amico.
Ogni tanto usciva col nostro gruppetto di ventenni allegri e goliardi,
e lui era un po’ strano.
Si muoveva lento e un po’ rigido, e teneva le dita delle mani come
mio zio, che è morto anche lui e che era malato di nervi. A dirla
tutta era matto, mio zio, come poi ho potuto capire stabilendo una connessione
inequivocabile tra le sue dita (la loro postura rigida e immodificabile)
e quelle del mio amico, e le mie.
Perché anch’io ad un certo punto sono ammattito e mi hanno portato
in una clinica.
Era tantissimo tempo che non vedevo quel mio amico, e proprio non pensavo
a lui quando quel giorno di febbraio, un giorno luminoso e freddo, l’ho
incontrato.
Direi che prima di tutto ho incontrato il suo sguardo.
Saremo stati ad una decina di metri di distanza, e quando gli occhi
si sono incrociati siamo rimasti paralizzati tutti e due.
Non so bene cosa può voler dire incontrasi in trincea, o ad
una chemioterapia.
Però mi viene in mente che in quei casi la situazione che ti
accomuna è esterna e non dice troppo su chi sei tu.
In quella paralisi invece era come se ci fosse il senso di uno sputtanamento.
Anche a farci mente locale, per chi non ha vissuto un momento simile,
non credo che ci si riesca troppo, a capire.
Ma veramente mancano le parole, perché manca il codice, nel
senso che non è un incontro tipizzato dal galateo: lo è a
stento nelle barzellette.
E allora ci siamo guardati tutti nudi in quella svergognante confessione
della nostra debolezza assoluta.
Il mio amico era una persona che sorrideva come può sorridere
un matto. Con quel misto di interrogatività provocatoria ed infinita
prostrazione che te lo fa riconoscere come più uomo di tutti gli
altri uomini, perché ti sembra che si porti dentro chissà
che mistero, che invece non consiste di altro che di una immensa
ed abissale solitudine.
Un matto di quel tipo ti sa dire che ti vuole bene da là in
fondo.
Non mi ricordo cosa ci dicemmo. So però che ero terrorizzato
a parlarci perché la sua pazzia faceva da specchio alla mia: uno
specchio reso cristallino dalla mia paura di riconoscermi nelle sue parole.
Così tornai subito nella mia camera in preda al mio folle terrore.
(Tra l’altro la mia camera sorrideva nel suo stesso modo: era bella, luminosa,
e ben arredata; ed era una prigione perché aveva le sbarre
alle finestre).
Lo evitai per tutto il tempo del mio soggiorno. Ma una volta lo incontrai
nel parco e cominciammo a passeggiare uno accanto all’altro, io e lui soli
in mezzo a quel verde d’inverno.
Io avevo paura ma non mi andava di fuggirlo di nuovo, anche perché
sapevo che, essendo io matto ma nient’affatto scemo, nessuno poteva capirlo
meglio di me là dentro.
E allora scendemmo passeggiando giù per il declivio di quel
prato così grande e sereno e freddo, fino al gruppo di alberi che
ne segnava il limite naturale prima della rete di metallo.
Gli alberi facevano ombra e umido gelato, e le scarpe si bagnavano
dentro i trifogli e l’edera selvatica verde scuro e cupo come in chissà
quale foresta.
A quel punto mi feci coraggio e gli domandai tesissimo che cosa avesse.
Lui mi rispose che pensava di essere Dio.
Siccome anche io ero nel mezzo della mia psicosi, e in più ero
lucidissimo, lo capivo bene cosa voleva dire, lo capivo benissimo cosa
quel cristo in croce dentro quella gabbia insieme a me volesse dire.
Così mi sentii male e gli dissi né più né
meno che avevo capito ma che non potevo stargli appresso, e me ne tornai
in fretta e furia verso l’interno di quella gabbia di matti, dentro la
mia stanza, dentro il mio letto, dentro le mie pasticche, dentro tutto
quello che poteva essere un dentro in cui scappare da quello specchio mostruoso,
che non era uno specchio ma una persona, che era rimasta indietro su quel
prato a vivere isolata la sua passione senza chiodi ma anche senza madonne
o figli da assegnare.
L’ho rivisto solo il giorno che sono andato via.
Stava a pranzo con altri disgraziati in un tavolo per quattro molto
piacevole, tipo ristorante.
Lo andai a salutare.
Gli presi la mano e ci guardammo in viso.
Gli dissi solo lo sai quanto ti voglio bene?
Lui mi sorrise e mi disse sì che lo so, e tu lo sai?
Gli dissi di sì e fuggii via di là.
Poi non l’ho più visto, né l’ho cercato, né ho accettato di rivederlo quando mi è stato proposto.
A qualche anno di distanza da allora mi hanno detto che s’è ammazzato.
Io sono quasi morto quando l’ho saputo.
Poi ho pregato Nostro Signore che lo accogliesse nel Suo amore, e ho
acceso un cero in una chiesa dove un coro cantava delle musiche sacre.
Qualche tempo fa parlavo con un mio amico che lo conosceva, e che pensava
che il risultato di tutta la fatica che avevo fatto per riprendermi e di
tutti gli sforzi terribili che stavo facendo per ricostruirmi una esistenza
stava già nel fatto che l’amico comune ora stava un metro sotto
terra mentre io mi sosrseggiavo la mia coca-cola.
Io non credo che sia vero: voglio dire che la differenza non sta in
chi si è sforzato, e come, e chi invece non lo ha fatto.
Ma non è questo l’importante.
L’importante è il fatto che in un cimitero che io non conosco
c’è uno specchio cristallino che invece di dirmi che posso diventare
matto col botto, ora mi dice che ho la morte ad ogni bivio.
Mi dice che mentre vivo, corro ad ogni svolta il rischio di morire.
Mi piacerebbe ancora, il sole.
L’estate è una faccenda di sole.
Non è questione solo di quando se ne viaggia con prepotenza
in cielo.
Capìta fino in fondo è cosa nota, e molto più
radicale di quanto possa indicare il livello del mercurio termo o barometrico.
D’estate il sole si ritira come la marea: e allora non ti puoi certo
limitare a dire che il mare è tramontato, perché tutt’intorno
è fitto fitto di residui e tracce, tanto marine quanto lo stesso
mare qualche metro addietro.
Così la sera estiva tu la vedi , piena di gusci e di molluschi,
e di alghette inzuppate di salino che non fanno in tempo ad asciugarsi
prima che arrivi il bagno successivo.
Dopo che la marea solare s’è ritirata dietro l’orizzonte,
la città d’estate è come quella spiaggia di detriti, piena
di sole tutt’intorno e dentro gli interstizi.
Donne-oceanine portate sull’asciutto dagli ultimi frangenti, le vedi
adesso incrostate d’alghe, molluschi e di salsedine.
Ma è faccenda di sole, che lascia luce invece che bagnato: sale
(sole) scuro e brunito sull’epidermide scoperta, e raggi di coralli e di
turchesi, che non si asciugheranno prima che il sole torni con la prossima
marea.
Il cocktail è brillante con sopra la bandiera o l’ombrellino,
perché la sera è troppo soleggiata.
E la pelle, pure la mia pelle, è distesa anche se un po’ cotta,
mentre siedo e sorrido a questo tavolino. Il sole m’entra nelle maniche,
portato dalla brezza di un mattino pieno di un pienilunio che mi annuncia
il messaggio reiterato e noto, proveniente dall’emisfero opposto.
Converso senza conversare, perché amo star zitto quando parlo,
e quando prendo il sole.
Lui si è insediato in questi lampioncini, oltre che dappertutto,
che portano se stessi fin dentro l’acqua scura del nostro porticciolo;
globi di luce che arrivano a sfrangiarsi nel movimento di quelle increspature.
Fasci di luce gialla dai contorni a sinusoide stretta ed ondulante. Fasci
paralleli per tutto il proseguire della banchina di mattoni larghi.
Mi abbronzo dentro il fresco, prendo il mio brunato mentre metabolizzo
i raggi incamerati oggi sulla battigia.
Sono una patella, sono un riccio. Faccio quello che c’è da fare
mentre aspetto l’ondata successiva.
Vivo questa serata nel mio stato anfibio.
Vivo adesso il mio sole solo nei suoi detriti, nelle tracce lasciate
in preda ai miei chimismi.
Ma vivo comunque perso
in questo brulicante luccicare,
e aspetto di ritrovarmi immerso
nella marea
che sta per arrivare.
“E’ la distanza media”, disse, “che ci frega: l’occhio nudo”.
Stava seduto davanti al microscopio (regalo antico dei suoi quattro studenti).
“I ribosomi son nobili parenti...come le galassie, o gli elettroni.
Discendere dagli atomi, essere figli di una nebulosa, a tutta prima...non
sembra proprio cosa...
L’uomo comune, (diffusissimo animale...), si sente denudato,
se pensa all’ Anima come ad un intreccio di neuroni. Ma i dendriti e gli
assoni, le leggi del chimismo cerebrale, o quelle più prosaiche
della digestione, sono broccati, tessuti d’eccezione, sete d’oriente che
tessono i processi delle mente...ma che la mente, mai non ha aprrezzato”.
S’alzò un momento per sgranchirsi un poco.
“Sono venuto stamane che erano le sei...insieme con la donna delle
pulizie (donna simpatica, ogni mattina prendo il caffè con lei...)
comunque non preoccupatevi, è notte alta...ma ho le chiavi
mie...”
Restò per un momento ad osservare...non capivamo cosa, si potrebbe
dire: fisso nel vuoto...ma il volto non aveva quella posa...
Lui se ne passa il giorno su quello che poi chiama “il buco della serratura”.
“Non s’ha la chiave” ci disse quella volta: “ma è una strana donna, la Natura: deve avere...”, soggiunse sorridendo, “...una qualche bizzarra perversione...io non me ne intendo...come la chiamereste una splendida mannquin che sa farsi vedere soltanto da un guardone?...”
Rimase per un attimo pensoso, quell’uomo solo, privo di riposo...
“Sapete...da bambini s’abitava in Prati, in via Silvio Spaventa...tutti
palazzi nati... più o meno intorno al trenta, quelli a quadrangolo
con dentro un gran giardino con le aiuole, dove noi ragazzetti si giocava...che
ci fosse pioggia...o sole....
La sera t’ affacciavi, e vedevi le luci degli altri appartamenti.
Così ci fu un aprile...io cominciavo i primi esperimenti...me
ne restavo sveglio accanto alla finestra...quella sul cortile. Guardavo
cielo e fogli, fogli e cielo, in mezzo a mille cifre di stelle e nebulose,
perchè l’oscurità di quell’immenso velo, che trascorreva
(sveglio anche lui) sopra quel quadrato di cimase, potesse illuminarmi...illuminare
le mie notti ansiose.
Mi riposavo guardando le finestre dirimpetto...e così accadde...accadde
che senza alcun sospetto, quella figura nitida ed oscura dietro la velatura
luminosa, mi offrisse...quello che potete immaginare...e che certo io pure
ho immaginato solo, lasciata perdere la mia nebulosa, perchè
nulla potei vedere se non ombra, come un veliero in mare che contemplassi
attonito, ritto ed esiliato sul mio molo...
Vidi la prima stella fatta di solo buio, anche lei dentro un rettangolo
di cielo, senza costellazioni ma che splendeva immoto, sconosciuto velo,
e mi nutriva...come di stelle... come di pianeti, e mi riempiva, me a me
stesso ignoto, di una galassia d’indecifrabili emozioni.
Capitò altre volte...non ho mai saputo se lo facesse apposta...perchè
l’ho cercata, l’ho braccata e amata senza sosta, in tante...tante attese
stolte.
Me ne restavo fermo ad osservare anche dei giorni pieni, donne e fanciulle,
nel loro andirivieni. Cercavo, nel loro camminare, di intuire la forma
di quei seni...guardavo visi, contemplavo movenze ed espressioni,
per fare esplodere, anche a giorno fatto, tutte quelle galassie di emozioni.
Ma mai..non trovai niente...solo vacue ed ansiose deduzioni. Visi comuni,
certo brava gente...ma io vi proiettavo quella luce, la luce di quel
cielo, per ottenerne solo l’inquitudine struggente di chi vuol far la notte...con
un velo...
Poi, una volta mancò all’appuntamento, e poi la notte dopo,
e in successione.
Così restavo solo, sotto il mio firmamento, cercando senza tregua
un’inversione...che quella stella d’ombra, quel cielo luminoso, potessero
concedermi riposo...che la luce splendesse, ma all’inverso.... si spegnesse
quel cielo! si comportasse bene (per una sola volta...) l’universo!
Non l’ho mai trovata...
Ricominciai pian piano le mie decifrazioni.
Di nuovo fogli e cielo...ma niente nebulose di emozioni....
Sapete come va...le galassie in fondo al mio universo nutrivano quel
buio sconfinato come quelle lontane nell’universo vero: sai che ci sono...ma
in mezzo è tutto nero...”
Fece una pausa, tenera e profonda...E sembrò che un’onda, un’
onda da lontano lo stesse accarezzando...silenziosa mano, sull’ansia di
quel viso...
E noi così si vide finalmente (sperduta dentro un’ eco), sul
suo volto...la grazia di un sorriso...
“Poi capitò una notte, che mi venne in mente.
Sapete come vanno queste cose...io ero un ragazzetto che giocava con
le nebulose...mi ci voleva più tempo, che al resto della gente...
Stavo osservando...rappreso nella mia concentrazione. Entrò
qualcuno mentre affisavo il cielo...girò l’interruttore...e le stelle....svanirono...nell’indistinzione.”
Si interruppe su quest’ultima parola...noi, lì impacciati ad
aspettare,.... e sembrava averci detto chissà cosa, che quella fosse,
quella cosa sola, che lo porta a stare in quella stanza, da solo giorno
e notte, lui dice “ad osservare”...
Ma ad osservare che? Lui il tempo se lo passa sopra le sue pagine sgualcite...tra
segni incomprensibili...e matite...e litri di caffè...
Comunque per fortuna a noi custodi non dà preoccupazioni: se
ne resta solo quando è tutto buio, preso dalle sue elucubrazioni...lo
lasciamo una notte...lo ritroviamo quella successiva.
Incredibilmente, la stessa cosa ce la racconta Iva, la donna delle
pulizie...
Però sul serio: mai successo niente: “Non preoccupatevi...”
dice cortesemente“...ho le chiavi mie...”.
C’è un cartello piantato in mezzo al mare.
Se ne sta ritto a venti metri da dove son seduto.
Dice “Corridoio di lancio”.
Io me ne sto accucciato sopra un mucchio di alghe semiseccate al sole,
accanto al mio pontile di legno consumato, lungo due biciclette al massimo,
e mi fa un po’ ridere una simile espressione.
Forse c’è stata un’asta a Cape Canaveral, il sindaco avrà
avuto degli agganci...
Chi mai vorrà lanciarsi, e verso dove, da questo porticciolo
largo come una vongola verace, che offre delle rampe, certo, ma per un
bimbo o a sforzarsi due, che si turano il naso prima di tonfare un metro
e mezzo sotto.
Se proprio non è stata solo una faccenda di tangenti, allora
prima o poi vedrò questo decollo...
Ma è d’autunno adesso, e qui non c’è nessuno...solo gusci
di barche con la pancia al sole, oppure a sciabordare indisturbati. E non
mi sembra proprio che quel tipo, in piedi su quello scoglio controsole,
abbia in progetto, posata la sua lenza, di salire in orbita.
Prenderò allora quel cartello come il detrito di qualche guerra
andata, come un residuato, e le mie alghe invece, questo pontile cotto
di sole e sale, e quella lenza ritta in contemplazione, prenderò
tutto questo non come una premessa per saltare.
Piuttosto, come la mia destinazione.
Il sapore del sale vive sulla pelle soltanto nel ricordo.
La memoria acquista il proprio senso soltanto se conduce lo sguardo
nelle sue radici, dove s’accorge di trascolorare nell’immaginazione.
E’ solo sulla cima, là dove il fusto si è già
suddiviso nei suoi rami, che si può distinguere tra i ricordi veri
e le produzioni fittizie della nostalgia.
Si deve però talvolta scendere in fondo, contro la corrente
ascensionale che trasporta con sé le linfe che nutrono il presente.
Si deve scendere laggiù, fino a trovare un’essenza intrisa di
memoria, ed un ricordo a sua volta intriso del desiderio di non venir negato,
di una tensione all’ essere che riluce in colori di finzione
Compie l’Anima un tale movimento dalla cima in fondo, perché
non vuole perdere se stessa nelle sue radici, minacciose di svanire nel
nulla di una memoria andata.
E allora porta laggiù, dentro la propria linfa più remota,
troppo lontana per farcela da sola, porta una dose, un surplus di energia,
perché questa riesca a salire sui rami del presente. Dona così
alla troppo debole realtà passata il suo sostegno col trasfigurarla,
offrendole ciò che più su (tra i rami) sembrerà all’opposto
proprio la nota di ciò che vive teso in un difetto d’essere, il
volto d’una realtà intermedia che vorrebbe, nel proprio struggimento,
raggiungere se stessa, ma ancora alberga ansiosa dove non si è.
Così, si vive sulla chioma della realtà attuale l’anelito
ascendente per ciò che non è ancora e che si vuole sia, mentre
là in fondo lo stesso struggimento salva (vuole salvare) quello
che non è più ma che si desidera che continui ad essere,
col trarlo fino alla superficie (ai nostri rami) vestito dei colori di
quel profondo buio, come l’abisso può offrire la sua luce in un
corallo.
L’Immaginazione così, conduce al Reale la realtà: la afferra
dall’abisso di cielo del futuro traendo verso l’alto sé da se stessa,
o dall’abisso di terra e mare di ricordi che chiedono una voce che li incanti
per ritornar presenti.
Nella presenza però l’incanto vuol restare.
La bellezza di trasfigurazione che spinge a quell’abisso fornisce ai
suoi segreti la forza per risalire verso una realtà che se ne nutre
per spiccare il volo.
Quest’Anima superna e ctonia, viaggiatrice delle due profondità,
dicono abbia meno Sostanza di quant’è Realtà.
Ma la Realtà sembra che sia per lei piuttosto un luogo
per sostare, o forse una traccia ormai cristallizzata, come una stalattite.
Pioggia dal cielo, s’infiltra l’ acqua dentro il ventre buio della
terra, e n’esce poi per ritornare su. Il risultato è quella stalattite.
Punto di passaggio per ogni goccia che vi si arresta un attimo per regalarle
i doni portati dal suo viaggio, e intraprendere subito un altro giro ancora.
Rivado al mio salino arso sulla pelle.
Non me ne sono accorto, allora.
Però ritorno giù, talvolta, a ripescare quella stoppa
irsuta che erano i miei capelli dopo giorni di mare. E il naso, che non
mi riusciva d’arricciare, costretto come si trovava sotto la febbre di
una pelle già cotta e pronta da cambiare, ma non si decideva a quella
muta.
Come potevo stare otto ore al sole?
Spostavo l’inclinazione del mio corpo fino a che i raggi non
mi superavano quasi senza vedermi, paralleli oramai, sul fare del tramonto,
al suolo di granito che ancora però mi riscaldava.
Gli altri se ne tornavano per rigenerarsi con acqua meno aspra, e col
sapone.
Io mi rituffavo, invece.
E quando infine anch’io mi ritrovavo asciutto per la cena, era l’asciutto
arido e tirato di quel sale, che rendeva ingovernabili i capelli e un po’
difficoltosi anche i sorrisi.
Non me ne accorgevo, allora.
Ma questa goccia d’Anima mi porge finalmente il suo regalo.
La mia realtà calcarea pende tangibile e pietrosa, e sorda e
cieca, da un soffitto di roccia inattaccabile.
Ma la mia Anima, la mia immaginazione, e il desiderio d’essere, e che
tutto sia, sono i miei spiriti aerei, che mi portano roccia e mi donano
forza e presenza vera.
Trapassando in opposte direzioni nel circolo di questo itinerario,
sono quello che sono sognando il mio passato e il mio futuro, perché
voglio essere.
Perché non voglio morire.
Perché non voglio che niente, che mai nessuno muoia, dimenticato
fossile, serrato dentro un sasso.
Non è affatto vero
che ad ogni stato d’animo
s’intrinsechi un oggetto,
come quanti pretendono
parlando d’intenzione.
Neanche è per nulla vero
che esista in alternativa
solo un nientificarci dall’esterno,
che ci renda oggetti
d’una nobilitante deiezione.
Tertium datur, almeno nel mio caso:
la mia disperazione.
Niente mi ha gettato in nessun luogo:
dispero senza oggetto
e senza la forza di un’interrogazione.
Il mio sguardo nel vuoto
non si costruisce
nel rapporto noto
di colui che guarda
e del guardato.
Mi dispero in autarchia integrale:
non c’è nulla fuori,
ma neanche dentro,
a farmi male.
Resta questo dolore a realizzare
tutte le aspirazioni di teologie passate:
nutre sè di se stesso
affogandomi nella sofferenza.
Abusando oltre ogni limite
della mia pazienza.
Zitto...shhh...silenzio...
si devono sentire solo
i tuoi passi sulla neve...
Anche l’affanno: tiello per te,
devi poterlo sentire
solo tu.
Cammina a passo a passo, e tieni
il tuo respiro,
pure quello,
solo tra naso
e orecchie.
Non vedi tutt’intorno?
C’è gelo.
Gelo alberi
e neve.
Non li vedi loro,
come stanno zitti
e come quel loro respirare immenso
se lo sono portati dentro
per esser più silenti
in mezzo a questo immenso freddo
senza voce?
Non li vedi
come sanno stare senza movimento
sotto il peso moltiplicato
di tutta quella neve su ogni ramo?
Tu non hai radici,
e l’immobilità
puoi viverla soltanto
nel rispetto di chi ora
te la sta ordinando.
E allora erra,
ma mi raccomando,
senza errare...
Un piede dopo l’altro sulle tue racchette
appresso a tutto quel vapore
dalle tue narici.
Bada...
non aprire la bocca,
se non è protetta...
il gelo ti può invadere
fino a dove mai t’aspetteresti...
Shhh, silenzio...
cosa hai visto, un movimento?
Sarà stato
il guizzo di una lepre bianca.
Non puoi muoverti
guizzando come lei...
Non puoi stare immobile e maestoso
come una betulla...
Il tuo silenzio e la tua vita
devi tenerli stretti
nell’arranco affannato
che ti violenta il petto.
Bada...
se cominci a correre
impazzito dietro a quella lepre,
o se ti fermerai anche solo un poco
per dare retta alla disperazione
bada...
in entrambi i casi
la fine sarà quella:
la differenza
starà solo nel posto
dove ritroveremo il tuo corpo di ghiaccio.
Dunque bada...
bada di trovare
il ritmo più corretto
per il tuo affanno che non puoi evitare,
per il tuo arrancare
verso quell’orizzonte di bianco
e gelo puro.
E allora zitto:
qui non sei voluto,
dunque tieni solo per te
il tuo fiato lamentoso.
Continua,
continua ad errare...ma bada,
a non sbagliare.
Shhh...zitto...
Càpita spesso
che le parole se ne siano andate,
senza chieder permesso.
Che maleducate.
Non se ne stanno tremule nel cuore
ad invocare che vengano evocate.
E’ solamente che non ci sono più.
Così, all’inglese, senza far rumore
se ne sono uscite dalla tua saccoccia
da un buco, certo…
da una scucitura,
come i sassettini delle fiabe.
A ritrovarle, a farle riparlare,
chissà in che posto andresti a naufragare.
Quale incantesimo
per fare ritornare le parole?
La terra ha troppo sale
troppo vuole
troppo si sommuove
senza che n’esca un fiato,
una pallida balugine
un’ombra tenue di significato.
Per fare le parole
necessita il dolore,
l’angoscia che ti strozza
l’angustia che ti spreme
e che ti strizza.
Le parole però
non sono la spremuta,
sono piuttosto
la polpa rinsecchita
che a fine spremitura
ti resta tra le dita.
Quattro elementi sono.
Il fuoco : me lo dice il sale.
L’acqua : me lo dice il mare !
L’aria, lo dice la mia vela.
E terra : come queste rocce.
Sono quattro elementi.
Me lo dice il sale, che lotta con il sole
e tirano i miei zigomi
crespi ed arricciati come questo mare,
immobili e scuriti
come quelle rocce.
Quattro elementi quattro.
Qui sul mio naso
così frammisti e spurii,
così compenetrati,
mai li ho sentiti così sapientemente distillati.
Il mio sorriso scolpisce gli elementi
dà forma al vento
e contenuto al sale.
E dice che nell’acqua
di quest’immenso mare
il fuoco brucia dei miei pochi istanti
come uno zolfanello fra le dita.
Filosofare allora,
e non dormire,
anche se tutt’intorno è un cicalare
torrido e sospeso.
Cosa ne dite di fare i clandestini
darci alla macchia
delinquere e stuprare
(non solo chiavare)
con la filosofia?
In questo gracidare cosí pago
e privo di memoria
e vago
in questa trita
e opaca
litania
mica si accorgerebbero
che è sempre quella storia
che per pensare occorre star nascosti.
Sapreste dirmi quale dovrebb’essere
al momento
la mira e il senso del filosofare?
sento l’amore,
sento…
l’oggetto non lo vedo.
Perchè ho un processo in corso
(ma non rileva molto)
e non guadagno un soldo?
Sapreste dirmi con chi posso intrecciare i fili del pensiero,
perchè sono un fucile impolverato
che non ha mai sparato
(anche se sembra un sogno
è vero!)
e gli comincia il tarlo
se tiene veramente un colpo in canna
oppure mai l’ha fatto
perchè
semplicemente non sa farlo?
Se fossi Cecco
arderei lo mondo.
Sono un filosofo
che invece di pensare
gira a tondo.
Ansie e tormenti.
"I giochi sono fatti!
torneranno i conti?..."
Metafore sdrucite
ad uso di poeti
in fase puberale.
Lise catacresi per studenti
che devono dar nomi
a quei sommovimenti,
per non andare in pasto
sbarbati
ed indifesi
ai volti allucinati
pallidi
e smorenti
di chi fa quel gioco.
Il gioco è fatto!
da quale parte sta lo scacco matto?
Un calcio alla scacchiera
al banco,
e la vittoria non andrà a nessuno
né allo stratega bianco,
né all’armata nera.
Le metafore morte
ottusi arnesi
per rètori d’accatto
servon solamente per sentirsi
offesi
ancora prima d’aver esposto il fianco.
Lasciatemi giocare
a biglie.
Lasciatemi il mio muro
per palleggiarci addosso
come facevo
quand’ero un ragazzetto,
e la pallina andava
e ritornava
dal calcinaccio scuro
e il sole in fiamme
come me picchiava
a più non posso.
Perciò ascoltate bene:
tenetevi gli idiomi
vi lascio quelle stupide espressioni
create solamente
per parare i colpi
di quelle facce lise
slabbrate di parole
troppo
per ricordare
quanto picchia il sole.
Lasciatemi qualcosa.
Piccola, anche
ma qualcosa.
Qualche capello; un dente;
due o tre ossa.
Fra cento anni sarò solo questo.
Ma va bene.
Anche così
va bene.
Ma fra duemila? Quando avrò anch’io l’eta di Seneca
e di Augusto?
E più in là ancora, quando sarò
passato
come Platone, e Sofocle
lontano
come gli Argonauti?
Allora? Che ci sarà di me?
Forse, quelli che chiamano elementi, ultimo frutto della disgregazione…
un atomo di calcio,
del mio calcio,
dimenticato in fondo ad un mattone;
nel dente guasto di un bimbetto ignaro…
un poco del mio ossigeno nel mare, o espulso nottetempo da una pianta,
chissà dove.
Ma anche solo quello, un atomo: non fatelo fuggire ancora.
Afferratelo, fatelo star fermo: dentro una boccetta,
in una scatola.
Sopra, scriveteci il mio nome.
I soldi per l’affrancatura ve li do io
fin d’ora.
E spedite il tutto, a me.
Oh, non so dove…tra così tanto tempo è certo che lo saprete
voi.
Inviatemi quel nulla trascurabile, che a voi non servirà – ne
son sicuro – a niente.
Nel luogo incomprensibile in cui riceverò quel pacco,
diventerò un sorriso;
diventerò una lacrima
piena di sale
e di ricordi
leggeri
come la mia anima
pesanti
come solo la morte
pesa.
Io sono
la perla
sul fondo dell’abisso,
che brilla e che si strugge
di venir pescata.
Io sono
il pescatore che non fugge
di fronte all’occhio fisso
di quella chiamata.
Ma se io sono perla
e sono pescatore.
e pescatore e perla
non son la stessa cosa,
che cosa sono io?
Fatemi gridare
a questo Dio nascosto.
Quant’è profondo il mare?
Il dio del Tempo batte i suoi rintocchi:
campana a morto
per la mia coazione.
Cosí ha deciso:
non mi vuole negare l’emozione
di farmi fuori gli occhi
per l’ucciso.
Non lo so mica
come possa fare
a sostenermi
proprio in mezzo al cielo.
Se togli il velo
di quel che può sembrare
vedrai come lavoro
sul moi scrittoio
curvo
e tutto solo.
Sopra quella nuvola sospesa
senza nulla sopra
sotto
nessun arredo intorno.
Se guardi bene potrai vedere,
credo,
(anche se c’è silenzio è pieno giorno)
l’anima mia rappresa
in questo spazio immenso,
l’anima mia dispersa
in quest’immenso cielo senza senso.
Ma non mi domandare
lassù
che ci sto a fare…
Non chederlo a te stesso,
non rischiare.
Tienti al suggerimento:
ascolta il bubbolare
inverosimile
del tuono
a ciel sereno.
Non so perchè sto qui,
non so chi sono.
C’è una vecchina e Piero
(ve lo assicuro...è tutto vero!)
Lei,
com’è piccola...
come un ditale...
Il micio è nero
(toccalo pure, non fa mica male!).
Piero e Sofia
si riposavano
sul mio divano.
Quel microbo gatto
a ronfare di fusa
mentre Sofia
un poco confusa
mi raccontava... non so che cosa...
ma era un ricordo
così lontano...
Io sono un filosofo
è il mio mestiere.
Ed è mio compito
(è mio dovere!)
trovare quel mondo
dove il racconto di quel ricordo
diventa grande,
grande davvero
come quel micio
(ricordi? Piero!)
che salta e sgambetta
tra i piedi piccoli
di una vecchina
troppo
forse troppo
confusa
rammemorandola
con le sue fusa.
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