Dopo gli ultimi controlli, tutto era risultato a posto. Ero pronto a partire.
Il più ambizioso progetto di tutta la
storia dell'umanità stava per compiere il primo passo di un cammino
che mi avrebbe portato a conoscere i più intimi segreti dell'universo.
Un biglietto di sola andata, certo, ma ogni cosa
ha il suo prezzo ed io ero ben lieto di essere stato scelto tra molti altri
candidati.
Ero l'uomo ideale e con i requisiti giusti: niente
genitori, niente famiglia, laurea in ingegneria spaziale conseguita a pieni
voti e primo in graduatoria al corso per astronauti dell'Agenzia Spaziale.
Nessuno avrebbe pianto la mia scomparsa, e come ricompensa per la mia opera
a favore della scienza il perenne ricordo presso tutti i popoli della Terra
e un bel capitolo nei libri di storia. La sola, vera forma di immortalità
che era data conoscere.
Tutto cominciò circa dieci anni fa grazie
ad un rivoluzionario progetto realizzato da due scienziati giapponesi che
li portò al Nobel per la fisica tra il clamore dell'opinione pubblica
mondiale.
Grazie alla loro opera erano state poste le basi
per la realizzazione di un motore ad annichilazione ad alta efficienza.
Imbrigliando l'enorme energia liberata dell'interazione materia-antimateria
i viaggi al di fuori del sistema solare non sarebbero più stati
un sogno irrealizzabile.
L'unico svantaggio è costituito dagli
enormi investimenti necessari che hanno obbligatoriamente imposto la scelta
di una singola missione su cui concentrare gli sforzi.
Alla fine, come sempre accade, furono le scelte
politiche ad imporre il proprio peso sul piatto della bilancia. Venne scelto
il più ambizioso ed eclatante tra i progetti presentati: la discesa
nel maelström cosmico, nell'abisso più nero e inconoscibile
del creato, quell'aberrazione del cosmo nota con il nome di buco nero.
Naturalmente la scelta di un equipaggio umano
non era stata contemplata sin dall'inizio, fu… diciamo un optional che
si aggiunse in un secondo momento in seguito ad una mia richiesta formale,
presentata direttamente al presidente dell'Agenzia, di prendere parte alla
missione.
Non so bene neanch'io quale fu il motivo che
scatenò la mia decisione, qualche volta nella mia mente s'insinua
l'inquietante sensazione che la colpa sia dei troppi fumetti letti da bambino
sulle avventure di Flash Gordon, ma la cosa più strana fu che ben
presto la mia domanda non fu l'unica a dover essere vagliata.
Ricordo le parole di un cronista che in un lungo
servizio dedicato alla missione mi aveva paragonato ad un agnello sacrificale.
Mi trovavo a casa, sprofondato nella poltrona di pelle nera davanti al
televisore a festeggiare con alcuni amici gli ultimi giorni che avrei trascorso
insieme con loro. Stavo giusto bevendo un sorso di birra quando sentii
quelle parole e quasi mi andò di traverso la sorsata quando scoppiai
in una risata tanto mi suonarono ridicole, ma quando mi voltai verso gli
altri non vidi alcun sorriso.
Ho concluso solo da poche ore il discorso alla
nazione tra una miriade di telecamere e di flash, seguendo un copione preparato
da qualche abile consigliere presidenziale e infarcito di richiami al dovere
e al sacrificio per il bene della scienza e della stessa umanità.
Tutte belle parole, ma non ho potuto fare a meno
di chiedermi se l'autore le avrebbe scritte ugualmente nel caso in cui
fosse stato lui il prescelto per innalzare la bandiera di così nobili
ideali.
Ogni tanto portavo lo sguardo in direzione della
folla assiepata oltre il perimetro riservato ai giornalisti, ma nei loro
occhi non scorgevo altro che l'eccitazione per ciò che altri avrebbero
compiuto. Nessuna pietà, nessun dispiacere per una vita che si sarebbe
persa nei freddi spazi siderali.
Terminato il discorso, gli ultimi controlli di
routine per una rapida verifica delle mie condizioni generali in un silenzio
quasi irreale, un'ultima preghiera con il cappellano della base e finalmente
il rituale della vestizione.
Ora niente ha più importanza, così
come non ne hanno avute le manifestazione di protesta dei gruppi pacifisti
contrari alla presenza di un uomo in una simile impresa.
Sono seduto davanti alla consolle di comando
e lancio un'occhiata veloce al pannello dell'orologio atomico di bordo.
Segna le 21.17 del 15 marzo 2053.
Poco sotto c'è il display di un altro
orologio per il calcolo del tempo su scale non relativistiche. Per ora
la data è la stessa.
"Tutti gli apparati di bordo sono completamente
funzionali. Nessun mal funzionamento riscontrato così come in accordo
con l'unità centrale di terra".
"Molto bene, Norma". Norma è il nome che
ho dato affettuosamente al sistema di intelligenza artificiale a reti neurali
deputato al controllo della nave spaziale. Per alleviare la mia solitudine,
la sua immagine appare sullo schermo con il viso di una stupenda ragazza
dalla voce suadente.
"Hai controllato le gabbie criogeniche?", le
chiedo con una certa apprensione.
"È tutto in regola, non c'è nulla
di cui ti debba preoccupare".
Certe volte Norma m'inquieta. Mi appare così
umana da spingermi a chiedermi se non abbiano nascosto una vera donna da
qualche parte.
Sorrido e mi volto verso l'apparato di ibernazione
di cui avrò presto bisogno. Sebbene il viaggio si svolgerà
a velocità prossime a quelle della luce richiederà comunque
diverse decine di anni di tempo per essere portato a termine.
Almeno per me qui sull'astronave. Sulla Terra
saranno passati, infatti, più di trentamila anni, dato che l'obbiettivo
è il super massiccio buco nero posto al centro della Via Lattea.
Per un attimo il pensiero di un simile abisso
temporale mi paralizza, ma poi ritrovo la calma e cerco di immaginare quale
sarebbe stata la reazione di Einstein se fosse stato al mio posto.
La relatività è davvero dura da
accettare per una mente così abituata alle basse energie come la
nostra.
Sullo schermo per le comunicazioni sento la voce
famigliare del direttore della missione e mi giro nuovamente verso il quadro
comandi.
"Come ti senti?"
"Beh, sono stato anche peggio", rispondo con
un mezzo sorriso per cercare di sdrammatizzare la situazione.
"Sai, ancora non mi sono abituato del tutto all'idea…
tra pochi giorni sarai già uscito dal sistema".
Sento che sta cercando di farmi coraggio. "Giusto
il tempo di terminare la fase di accelerazione".
"Gli strumenti qui non indicano alcun'anomalia,
sta procedendo tutto alla perfezione".
"Confermo. Se il tempo non si mette a fare i
capricci tra poco la Terra avrà un abitante in meno".
"Tutti noi siamo molto fieri del tuo lavoro.
Quest'impresa aprirà la strada a nuove conquiste".
Non dico nulla perché non c'è nulla
da dire.
"Va bene, diamo il via alle danze", aggiunge
dopo un breve attimo di pausa, mentre le procedure per il lancio stanno
lentamente giungendo al termine.
Controllo ancora una volta le spie sulla consolle.
Tutto in regola.
Avverto una leggera vibrazione quando il conto
alla rovescia giunge allo zero e sento la pinta dei motori ausiliari spararmi
verso il cielo.
Sul gran visore davanti a me vedo le sottili
nubi farsi sempre più vicine. Non è una visione diretta,
ma mediata da una serie di telecamere ad altissima definizione.
In pochi minuti l'atmosfera non è che
un ricordo e il mio corpo inizia a perdere peso. Attivo il visore posteriore
e vedo la Terra nella sua fragile interezza.
Avvio la sequenza per il distacco dei serbatoi
che sono serviti per la spinta iniziale e dico a Norma di procedere all'accensione
del motore ad annichilazione e alla spinta di rotazione necessaria per
simulare un ambiente a gravità terrestre.
Un po’ alla volta il mio corpo riprende peso
e posso togliermi le cinture di sicurezza che mi saldano al sedile.
Gli strumenti non segnalano alcuna disfunzione.
Tutto sta procedendo per il meglio.
Il piano di volo prevede un passaggio ravvicinato
a tutti i pianeti da Giove sino a Plutone e lo sgancio di una sonda per
ognuno di loro, poi via verso la meta con i sofisticatissimi strumenti
di bordo intenti a raccogliere dati sullo spazio esterno e inviarli sulla
Terra sin quando le distanze permetteranno una chiara ricezione da parte
dei centri di ascolto.
Un ultimo saluto agli uomini della base, un addio
sentito, e poi chiudo il collegamento dato che il ritardo del segnale presto
renderà impossibile qualsiasi dialogo.
"Norma, apri la gabbia numero uno".
"Non preferisci restare sveglio sin quando non
lasceremo il sistema?", mi chiede con la sua solita voce suadente.
Esito per un momento. In effetti, è quello
che avevo preventivato di fare, ma, ora, nella solitudine la mia mente
non riusciva a pensare ad altro che all'abisso che avrei dovuto affrontare.
"No. Aprila", rispondo avvicinandomi al cilindro
criogenico.
La parte frontale, trasparente, si apre con un
leggero sbuffo d'aria e io mi sdraio al suo interno sistemando i sensori
per la rilevazione dello stato di salute sulle tempie e sui polsi.
"Spero che il tuo riposo sia piacevole".
"Svegliami se ci saranno dei problemi", mi raccomando,
anche se so che Norma lo avrebbe fatto comunque.
"Non temere".
La gabbia si chiude e lentamente sento gli occhi
farsi pesanti mentre sprofondo nell'oblio.
Un senso tremendo d'amaro
in bocca e le palpebre che stentano ad aprirsi. Per alcuni minuti cerco
di svegliare la mente dal torpore e da una leggera nausea che sembra non
darmi tregua.
Con il passare del tempo la vista riacquista
efficienza e noto le luci soffuse della cabina, poi il cilindro si apre
e posso uscire. Mi ricordo solo all'ultimo momento dei fili dei sensori
e quasi rischio di strapparli. L'illuminazione aumenta d'intensità
in maniera graduale.
"Ben svegliato", mi saluta Norma. "Come ti senti?".
"Come dopo un ora di autoscontri con me come
paraurti".
"Considerata la lunga ibernazione, i tuoi parametri
sono del tutto ottimali".
Ogni movimento mi provoca un dolore tremendo
alle articolazioni e mi serve un'eternità per raggiungere la consolle.
Mi lascio cadere sul sedile e riprendo fiato.
Immediatamente il mio sguardo si porta sull'orologio
di bordo indicante le 13.04 del 21 febbraio 2096, poi come spinto da una
forza superiore porto la mia attenzione più in basso e vedo la cruda
verità del secondo orologio con l'ora e la data che avrebbe visto
un abitante della Terra, ammesso che ancora qualcuno ne calpestasse il
suolo: 04.52 del 22 novembre 36717.
Cerco di reprimere il senso di panico che mi
sta cogliendo e il respiro si fa pesante.
A quanto pare Norma pare essersi accorta del
mio malessere. "So che questo è un momento difficile, ma sapevamo
sin dalla partenza ciò che sarebbe successo".
Mi volto di scatto. "Cosa credi di sapere! Sei
solo una macchina, non un essere umano… forse l'ultimo rimasto nell'intero
universo…".
Norma tace, ma sul monitor il suo viso assume
un'espressione triste. "Lo so perché anch'io sono l'unica della
mia specie".
Non so cosa rispondere, ancora una volta la sua
umanità mi ha colto alla sprovvista. Ma com'è possibile parlare
d'umanità in una macchina? La testa mi scoppia e non ho alcuna voglia
di pensare a simili argomenti.
"Scusami", le dico cercando di riorganizzare
le idee.
"Non ti preoccupare, non mi sono offesa".
Il visore centrale è spento. Durante il
mio lungo sonno non sarebbe stato di alcun'utilità, ma solamente
un'inutile spreco di energia. Traggo un profondo respiro e dico a Norma
di azionare le telecamere.
Ciò che vedo mi paralizza e per un attimo
vengo colto dal terrore, poi, lentamente, riacquisto il controllo ma non
riesco a distogliere gli occhi dal monitor.
Davanti a me vedo la porta del Nulla, un'immensa
illusione nera di centinaia di miliardi di volte la massa del Sole al di
là della quale regna l'incomprensibile singolarità centrale.
Alla mente mi riaffiora come per incanto un verso
di un'opera studiata sui banchi di scuola di un poeta vissuto centinaia
di anni prima della mia nascita, quando nel suo immaginario viaggio giunse
sino alle porte dell'Inferno e vi lesse una scritta: "…lasciate ogni speranza,
voi che c'entrate".
"Hai calcolato il suo raggio di schwarzschild?",
chiedo con un filo di voce.
"Certamente. Corrisponde a circa novecentocinquanta
miliardi di chilometri", risponde Norma, con la sua voce che pare non tradire
emozioni.
"Sembra una distanza enorme, ma non è
nulla considerata la sua massa".
"Se alcune delle teorie più accreditate
sono corrette, essendo un buco nero in rotazione con una massa simile,
forse l'anello della sua singolarità centrale è la porta
per altri universi".
"Sei il computer più strano con il quale
mi sia mai capitato di parlare".
"È naturale, le mie reti neurali sono
molto simili alle tue", mi fa notare, mentre sul visore la sua immagine
sembra accennare un sorriso.
Avverto una breve scossa, poiché l'astronave
è penetrata nel campo d'azione delle forze di marea che distorcono
la struttura stessa dello spazio-tempo.
"Hai paura?".
Norma non risponde, poi secca una domanda. "Perché
sei voluto venire?".
"La spinta dell'ignoto, suppongo. E qualcuno
sarebbe comunque stato scelto. In caso di un tuo mal funzionamento sarebbe
servito un nuovo controllore per i piani di volo… e una vita qualsiasi
è più sacrificabile di un prototipo del tuo valore".
La cabina resta immersa nel silenzio e io non
posso fare a meno di ammirare gli enormi anelli di accrescimento con i
luminosi ammassi di gas sprofondare nel Nulla simili a cortei in festa.
Fuggire è inutile, non credo ci sia più
abbastanza energia da lasciare il gorgo nel quale siamo entrati… e poi
per andare dove?
L'orizzonte degli eventi è sempre più
vicino e con esso la porta dell'ignoto. Presto non sarò che un ricordo…
o forse il pioniere di avventure al di là delle nostre stesse possibilità
di immaginazione in nuovi universi.
Se esiste un dio, in ogni caso, la mia morte
non sarà la fine di tutto.
In un modo o nell'altro, presto sarò davvero
dall'altra parte.
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