A quest’ora ti voltavi dalla mia parte.
Cercavi la mia mano tra le lenzuola, la stringevi debolmente e io davo
una scossa più forte. La tua mano allora restava inerte come una
foglia che ha avuto il coraggio di cadere.
Tu credevi di svegliarmi, all’alba ti eri data
questo compito, per te era come tenere una noce in una tasca stretta.
Ma io ero sveglio, ogni mattino aspettavo il tuo gesto col quale forse
volevi sancire una specie d’ordine tra me e te, un soccorso che chiedevi
o davi, che ti accontentava.
Una volta hai trovato la mia mano addormentata,
come quella di un morto, sarà capitato anche a te di muovere
un braccio al risveglio e di sentire addosso, nei panni, un braccio di
paglia. Ecco, il più delle volte era come se non potessimo toccarci,
come se tu stringessi quel braccio di nessuno.
Noi non avevamo tanta intimità. Non voglio
dire che non l’abbiamo mai avuta, ma forse ci restava poca tenerezza, qualche
carezza mite che non volevamo ancora privarci, per eludere tra di noi tanti
sospetti. Un tempo cercavi le parti fredde del lenzuolo e ti avvicinavi
a me, ti piaceva sfiorarmi i piedi, ridere, ti piaceva dire cose al contrario,
proverbi, filastrocche alla rinfusa. Poi tutto finiva debolmente, il sonno
che era per giungere imponeva una serietà, nessuno si è mai
addormentato ridendo. Io nei momenti di silenzio pregavo, due parole per
uscire, di affrancamento per la notte. Potevano essere parole d’occasione,
versi del Pascoli o le preghiere dell’infanzia, parole che sono rimaste
sulle labbra di chi è uscito dalla vita per sempre.
Da qualche notte faccio sogni pieni di tormente.
Stanotte il vento era tanto forte che sentivo la neve scolpirsi. Nel mio
sogno ci sono state strade battute per le slitte, rocce screziate come
coralli sotto il ghiaccio. C’era anche una donna, forse eri tu Miriam,
avevi vestiti che non hai mai indossato ma c’era un po’ d’azzurro che ti
ricordava. Scendevi tra gli alberi, i passi calcavano la neve morbida.
Con te c’era quell’uomo di mezz’età che ti teneva stretta all’uscita
del cinema, a proposito, tu non mi hai visto, ero qualche passo dietro,
ma voglio dirtelo con onestà che quasi non mi ha fatto effetto.
Eri lì, un po’ curva nel giubbotto, camminavi a piccoli passi. Eri
un puntino fra tanti e avevi addosso il braccio di un mercante di schiave.
Lo giuro che non mi ha fatto effetto, non dico così per disprezzo.
Solo mi è sembrata una storia avvilita, fatta solo di
corpi, una strana affinità di amore e materia. Nel sogno vi
lasciavate cadere abbracciati, in un modo stupido, come a imprimere la
vostra forma nel bianco. Quando mi hai visto hai inscenato una caduta,
ma sembravi seria, ti toccavi una spalla. Abbiamo raggiunto la strada e
non facevi che voltarti, avevi quel modo di sorridere degli ultimi mesi,
quel modo di pensare a qualcosa così lontano da me.
C’erano tanti tizi che ti giravano intorno, gente
irritante che magari alzava il gomito perché avevi sposato uno qualsiasi,
mentre tu eri bella e sembri ancora una ragazza. A volte è così,
le persone vicine invecchiano lontane.
Ora mi resta un modo per fermare il mio tempo,
è un gioco che ripeto nei giorni come questi, quando il bene
che mi voglio è come un cane perduto in un quartiere: basta una
finestra, un punto lontano tra le case e il cielo, sai, quei mondi che
ti accontenti di pensare. E’ questione di un istante e mi sembra di capitare
in un momento imprecisato, a metà della vita. Nel vuoto vedo sorgere
un campanile dalla guglia innevata, al centro c’è un orologio senza
lancette e i fiocchi di neve alitano intorno. Sembra il campanile di un
paese dove abbiamo sostato una sera d’inverno, ricordi, lassù sulle
Dolomiti, quando mi dicesti che volevi un figlio. Andammo a cenare in quel
posto di lusso che ti sembrava di conoscere senza aver mai veduto. Parlammo
di tanti momenti “già visti”, e il parlarne sembrava uno di
quelli, perché c’era sotto un’emozione che tratteggiava i gesti,
li rendeva più prossimi che veri. Quando abbiamo ripreso la strada
ricordo era quasi buio, ma c’era un bagliore di luce e potevi vedere distante,
allora tu indicasti il campanile che si allontanava e guardasti dietro
tra i sedili vuoti come se lo vedevi già il tuo bambino. Ricordo
i mucchi di neve spalata che costeggiavano la strada e noi che andavamo
lenti verso il buio, dove moriva ogni curva.
Così stanotte ho sognato quelle strade,
soltanto ero triste e mi tornava il fastidio della neve tra i denti, il
freddo del ghiaccio gommoso quando lo provi a masticare. Eravamo tra le
correnti del cielo perché le nuvole correvano in mezzo a noi e ci
facevano sembrare dei corpi indefiniti, ed io lo sentivo che eravamo tanto
soli, anche il mercante di schiave che tossiva come un lupo era solo, eravamo
come gli alberi alti e dritti dei boschi, e faceva freddo, che mani gelate
avevo.
Erano belli quei posti in montagna, paesini di
case e comignoli che sembrano acquerelli. Così stanotte mi sembrava
d’esser lì insieme a te, Miriam, a battere di porta in porta le
maniglie risonanti, ed era come se quel mondo fosse già stato, quei
colpi già avvenuti. Era un epilogo della vita, senza che la vita
avesse dato risposte, senza nessuna notizia di noi.
Poi mi sono svegliato. Avevo freddo, un formicolìo
nella mano che presto si sarebbe esteso lungo tutto il braccio, e ancora
una volta il risveglio non m’è parso il risveglio della mia vita.
Mi domando come potevo, da bambino, rammaricarmi del giorno che finiva,
delle ore della notte che mi sembravano rubate ai miei giochi, e temere
che le cose non potessero tornare così come s’erano disposte alla
mia felicità; ora semplicemente infatti, mi sembrava che non
potessero tornare al loro senso.
Avrei giurato che gli uomini della pioggia, ora
che nel quadro della camera da letto ricominciava a piovere, fossero l’uno
accanto all’altro nella strada deserta. Adesso invece gettando un’occhiata
mi sembravano distanti, quasi estranei. E anche le case erano diverse,
più alte e più grigie. Mi chiedevo se fosse possibile che
avessero fatto un po’ di strada. Invece di una cosa ero certo. Quella fermata
d’autobus che stava nel fondo, lì non c’era dubbio che c’ero stato.
Alcuni luoghi possono darti fiducia e non avere
giudizi su di te. Questo può voler dire esserci stato. Trovare un
segno di riconoscimento di non essere passato di lì.
Questa casa ha dei balconi così stretti
che danno sulla strada come quei posti al teatro dove si vede tutto di
sbieco.
Da un po’ di giorni c’è sempre un uomo
sotto casa che ti aspetta. Un tipo con la barba e i calzoni calati. Passa
almeno un quarto d’ora appoggiato all’automobile, senza fare nulla, tira
su col naso e fuma di dispetto. Sembra un tipo qualunque, uno di quelli
che aggiunge il torto ai torti. Non so se aspetta veramente che tu
torni, ma sembra conoscere i tuoi orari.
A volte penso a quanti uomini hai accompagnato
in queste strade, a quanta gente disposta a comprare hai sorriso lasciando
capire chissà cosa. Magari se c’era un buon affare vi sarete fermati
a mangiare in centro, con in mente ancora i nomi dei quadri, delle avanguardie
e le date delle gallerie, cose che fanno venire appetito. O forse durante
il pranzo il tuo signore avrebbe creduto di poter comprare te, e prima
di ogni cosa glielo avresti lasciato credere. Non so se è andata
mai così, ma a volte ti ho pensato in una bella camera del centro,
mentre affondavi le mani nelle tasche di un tale.
So cosa ti succede quando qualcuno ti gira intorno.
Ti senti lusingata e cerchi di ricompensare, il tuo rifiuto comporterebbe
il divieto di sentirti piacente, nel disilludere il tuo amico gentile ne
colpiresti la speranza, che tu sai essere molto suscettibile poiché
riconosci l’eccezione di essere amata. Così tu non puoi offenderlo,
colui che ti tiene nelle sue mire vale più di tutti, vale più
di te stessa. Tu diventi la prima estimatrice del suo spirito, la musa
interessata delle sue vicende. Solo tu non vuoi curare la tua vanità,
tu vuoi solo esaudire. Il complimento che ricevi impone un entrare in gioco,
l’attesa ti rassegna.
A volte la sera, mentre mi spogliavi, mi sembrava
che tutta la tua vita si rivoltasse contro te stessa. Allora mi abbracciavi
i fianchi e mi baciavi, e ogni tuo gesto diventava esso stesso il segno
di una contrizione, così che niente aveva peso nel prima o nel dopo,
tutta la tua forza morale si concentrava nell’obbligo, la dedizione era
il tuo castigo. Questo mi faceva sentire distante, un giudice lontano che
per commissione passava sul tuo corpo, con la sua vita neutra si
accaniva contro quella di un’ altra. Un po’ ne soffrivo, ma non disdegnavo
questo ruolo. Incrociavo una certa tua indifferenza, sopportandola.
Mi era dato di osservare a vista la tua vita
così come a volte capita di guardare dal di fuori la scena di un
gioco già avviato, la natura morta che resta negli occhi di chi
non partecipa. Del resto cosa si può chiedere a un uomo condannato
a godere di un piacere che dà, costretto al ruolo un po’ anonimo
di recare un piacere cercandolo?
E’ così triste il piacere di un uomo che
a pensarci mi viene il freddo nei fianchi, come nelle notti in cui si dorme
scoperti nella stanza che raffredda.
Allora sembra di guardare il mondo con gli occhi
di nessuno e che qualunque posto della tua vita sia un nessun luogo. Forse
non ti è mai capitato di sentire che i tuoi occhi partano dal vuoto,
un caso quasi di assenza o di passaggio dentro un’altra vita. Puoi riconoscere
luci, oggetti, suoni, ma nell’ambiente, è così strano, ti
senti mancare e tu non partecipi di questa mancanza. La tua coscienza stenta
nell’intenzione continua di suoi significati, e le cose, solo in lontananza,
sembrano appena adatte alla loro vita di cose, al chiuso, in una loro realtà
sufficiente.
Pure tutto quello che hai visto e vissuto deve
essere rimasto da qualche parte, in un lontano minuto secondo, fra quanti
secondi hai raccolto nei giorni.
Chissà quante persone sono stato, quanti
singoli me stesso ho percepito in tante occasioni. A volte sento dentro
di me il cielo di una piazza di provincia, quelle piccole piazze dal pavimento
regolare e dal cielo fiorito d’azzurro e di nuvole. Non è solo un
ricordo, certo mi sarò seduto in quel caffè, avrò
camminato tra i piccioni, nel registro della chiesa avrò scritto
il mio nome tra tanti. Ma non è un semplice ricordo, è la
strana curiosità per le cose che sono accadute, nelle quali forse
è rimasto quello che chiedevamo alla vita. Cosa sarebbe stato
di me? Penso al momento in cui lo chiesi a me stesso, al tempo in cui avevo
in tasca una risposta sicura. Deve essere stato lì all’angolo della
piazza, nel piatto povero di un suonatore di violino. La fontana al centro
avrà atteso che il mezzogiorno asciugasse l’umido intorno; deve
essere stato negli aliti della gente bianchi di collera, nelle voci di
vecchi e bambini già distanti, già echi delle mattine domenicali.
Deve esserci un attimo nella vita in cui l’insieme delle cose, per un contatto
fortuito, ci rende il piacere estremo della realtà. Basta questo
soltanto, in fondo, un campanile innevato. E allora penso che non mi importa
più di niente, delle mie calze bucate, dei vestiti ombrati. La vita
mi resta attaccata teneramente perché il mondo mi rende
superfluo, mi fa allentare i polsi,
come quando ci scorre sopra l’acqua fredda e la vita batte nella vena azzurra,
e la vorresti graffiare, darla a un dente di serpe, ma ti accontenti di
baciarla, di ritrarla a te, per giurare la pace con la vita che prima ti
ingombrava.
Da ragazzo scrivevo sui muri, scrivevo di tutto,
anche le parolacce o messaggi di amore che non vivevo. Una frase poteva
cambiare gli ambienti, le strade. Restavano sullo sfondo, parole di vernice
che colava, lì, di fianco alla bottega di un calzolaio o alla fermata
del tram, mettevano fretta al cuore dei passanti e rabbia a chi lavorava
nei giorni di festa. Una volta scrissi sul retro di una chiesa : Tumulazioni,
spari, nascite, l’universo intero è nausea. Nei giorni che seguirono
vi vidi passare accanto carri funebri e un traffico insulso. Provai rincrescimento
e non scrissi più nulla. Solo le date, date su ogni foglio, sulle
liste della spesa e sugli alberi. Tu ne ridevi e io so per certo che è
una mania, ma è un modo di distanziarmi da quello che faccio come
da un bene. Ho paura delle cose che non sono registrabili, che cadono dove?
Allora preferisco uccidere gli atti di mio pugno, perché nella volontà
di una fine c’è una certa saggezza. Non è come dici una smania
di restare, di essere immortali, è un bisogno di giocare col destino,
di servirmi di segni e circostanze per orientare quel vago senso di morte
che si possiede in vita.
Quel vago senso di morte. Adesso ripetilo mi
dico, perché a me piace suscitare ad arte un fondo di rassegnazione
naturale che accolga la mia vita, nel piacere di una consapevolezza. E
così a volte in un mercato, chiedendo l’ora a una signora affaticata
dalle buste, nella svogliatezza delle cassiere, nelle battute dei baristi,
nelle doppie al totocalcio, per un qualcosa di innocuo, per la terza possibilità
in agguato, mi ripeto: dillo adesso che nessuno ti sente, che il destino
è in pianura ed è distratto dagli auspici. Allora come un
resto esiguo che s’infila nelle tasche, degli spiccioli scalati a un ammontare
imprecisato, mi rimane, quel vago senso di morte. D’improvviso le sequenze
degli eventi si allentano, qualcosa le affatica e quasi le arresta. Le
cause non danno più gli effetti, come il tuono di quel giorno che
voleva piovere e non è piovuto. E’ l’attimo che precede qualcosa
che non si è mai avverato. Tutte le cose si fermano nella solitudine
della loro comunione, in un dissidio di fraternità. Sembra l’istante
di un commiato. Gli uomini della pioggia lasciano la strada, la fermata
resta appena sullo sfondo. E se mi chiedo cosa porto via da questa terra,
mi viene in mente solo un brivido nei fianchi, qualcuno, qualcosa, niente,
nessuno.
Di colpo mi viene in mente un qualcosa che stavo
per capire, anzi, che ero sul punto di dire perché non occorreva
pensarlo o capirlo, era una cosa che c’era, che c’era e basta, astratta
e banale come la vita. Questo pensavo, un pensiero non fatto che racchiudeva
tutto, la vita intera. Mentre sono qui ad aspettare un secondo che non
batte, per uscire dal tempo, diventare un uomo della pioggia per qualche
altro nessuno.
Tu stai dormendo Miriam e non hai pentimento
di nulla, dormi nell’ordine che imponi ai tuoi interessi, nel sollievo
che concedi ai tuoi sbagli. Senza alcuna fatica a credere che quel che
ti coinvolge è solo il marcio del mondo che corrompe. Ma la malizia
ha le stesse costole dell’ingenuità, se ne divide gli stessi privilegi.
Dormi e non sai nulla, e neanch’io so perché
adesso ti tendo la mano e aspetto che tu la stringa, adesso che è
l’ora di alzarsi e tutto torna come sempre. E come sempre, buongiorno,
ti sorrido.
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