Era uno di quei mattini velati di grigio che
non sanno se illuminarsi di sole o piovere. Uno di quei mattini che ci
si sente soli, come l'ultima cosa della terra destinata a scomparire. Uno
di quei mattini fuori del tempo, con i vellutati silenzi che invitano a
restare a letto e a vivere in altre dimensioni della mente, nel passato
o nel futuro.
In quei mattini tutto sembrava più
silenzioso, tutto era più tranquillo, estraneo ai fracassi e alle
assurdità della vita. Una giornata in cui ci si sente senza nome,
un po' inutili e un po' padroni dell'universo.
In uno di quei mattini mi proposi di camminare
senza meta, forse con l'unico scopo di stancarmi e poi dormire dieci ore
di fila. Così uscii…
Le cose che vedevo erano le stesse che incontravo
quotidianamente, eppure erano diverse. Ad ogni angolo scoprivo qualcosa
di cui non mi ero mai accorto, un mattone sporgente, un palo storto, una
piccola ed inutile bottega di calzolaio. Estraneo tra gli estranei percorrevo
le strade. Il vero silenzio, quello che si può toccare con i pensieri,
era in ogni cosa, vivente o meno, ed io assorbivo silenzio come le piante
assorbono l'umidità.
L'unico posto dove potevo riposare il mio
desiderio era a pochi passi: il Lungomare. Solo in queste mattinate si
può vivere il lungomare cittadino, spopolato per i più, ma
ricco di pensieri e di vita per quelli come me, imbevuti di anacronistica
sensibilità per gli atomi di tristezza. Macchie verdi di panchine
solitarie e stanchi monologhi di vecchi pensionati, silenziosi inquilini
del lungomare mattutino.
Camminai lungo la ringhiera che mi separava
dal mare, con lo sguardo oltre gli scogli frugando nell'orizzonte le speranze
dei miei sogni. Il mare era immobile, tratteneva il respiro aspettando
la novità dell'alta marea.
E finalmente i gabbiani mi chiamarono. Li
vidi sfiorare la vita, dondolarsi nelle metamorfosi del mio instabile umore;
alteri e fragili, felici di essere insieme, stregonerie della natura. Ripensai
all'albatro di Baudelaire, così altero nel cielo e goffo in terra,
metafora del poeta vincolato alla realtà. Mai come in quel momento
mi sentii poeta tra i poeti, certo di aver creato io quei gabbiani, così
eterei e quasi inesistenti nei grigiori delle alte e sottili nubi. Anche
le palme, giganti di terre lontane, mi chiamarono con l'improvviso frusciare
delle appuntite foglie. Erano sempre là e mi salutavano, mi davano
il benvenuto.
Una tamerice quasi spoglia prima di addormentarsi
nel sonno invernale, mi spruzzò il suo salato odore sul volto.Colpito
da quell'inaspettata presenza mi avvicinai e con stupore la riconobbi.
Era l'Albero, come l'avevamo battezzato Ciro ed io almeno quindici anni
addietro, quando venivamo a pescare sul molo del porticciolo turistico
poco distante. Sulla scorza erano ancora visibili due serie di segni che
praticavamo prima di ritornare a casa: ogni tacca, un piccolo pesce. Quelle
sopra di Ciro, in basso le mie, con due tacche in più.
Due bambini allegri, ignari del futuro ma
felici del presente. Uno biondo come una spiga matura, l'altro nero come
la pece bollente, per questo li avevano soprannominati Sale e Pepe. Erano
amici come si può essere solo a dieci anni, quell'amicizia totale,
coinvolgente, che lievita le anime, plasma le personalità.
E la loro amicizia era scritta anche nei loro nomi, costruiti con lo stesso
numero di lettere, e di questo andavano orgogliosi, come se fosse una loro
creazione.
Erano amici e trascorrevano insieme moltissime
ore, a scuola, a casa per studiare e nel tempo libero per giocare o pescare.
Non si annoiavano a stare sempre insieme, avevano continuamente cose da
dirsi e, se per caso, non avevano niente da raccontarsi, si dicevano a
vicenda delle grosse frottole inventandosele al momento, per poi ridere
a crepapelle scoprendosi bugiardi l'uno con l'altro. Erano amici e lo restarono
fino alla seconda media, poi Sale partì e Pepe rimase solo, e da
quel giorno decise di non avere più amici.
- Beh, - disse Pepe, - di che parliamo
oggi?
- Non so…
- Cavolo, te ne vai! Dobbiamo dirci
tante di quelle cose. Tutto quello che dovevamo dirci il mese prossimo
e il successivo!
- E' strano, ma non ho voglia di parlare.
L'amo s'impigliò nelle rocce, ma Sale
non fece niente per districarlo.
- Ti vedo strano...
Sale chiuse gli occhi e fece una smorfia.
- Ti ricordi la casa disabitata vicino
la
chiesa del Carmine? Il secondo piano, quello con i balconi?
- Certo.
- I vetri sono sempre stati rotti?
- Sì… mi sembra di sì.
- Ne sei certo?
- Quella casa è lì forse
da un centinaio d'anni. Perché?
- Perché oggi li ho visti; li
ho visti per la prima volta. Intendo i vetri rotti. Perché in tutto
questo tempo non li ho mai notati?
La lenza era ancora impigliata. Si voltò
verso Pepe, era spaventato.
- Dio, perché quei vetri devono
spaventarmi? Non c'è niente di tremendo, è solo che... è
solo che ho riflettuto che se non ho mai visto quei balconi, quante altre
cose non avrò notato? E le cose che ho visto, quante ne riuscirò
a ricordare quando sarò lontano da qui?
Mi risvegliai dal torpore nel quale ero incautamente
scivolato, mi scoprii seduto in terra vicino l'albero che, assolto dal
proprio compito, s'era addormentato.
Il mare ancora silenzioso e i gabbiani scomparsi,
tutto era deserto come il mio animo. Inconsciamente avevo cercato
di cancellare quei ricordi, e il tempo mi aveva aiutato, ma era bastato
un attimo per rimescolare tutte le mie emozioni sedimentate come polvere
sul fondo degli oceani.
Ero ancora più stanco e infreddolito
ma decisi di sfidare il mattino incantato. Giunsi sul molo, anche qui tutto
era deserto, anche qui le cose trattenevano il respiro nel silenzio delle
emozioni.
Le barche ancorate nel porto non produceva
il classico sciabordio nell'acqua: anche loro attendevano. Camminai per
un po' quasi in punta di piedi e con lo sguardo in terra, come si cammina
in una cattedrale; ero in un luogo sacro, oberato di peccati e desideroso
di confessione. Lo sguardo immediatamente volò dove io e Ciro pescavamo
abitualmente. Il punto era a circa settanta metri. Vidi una sagoma scura.
Sembrava una rete da pesca ammucchiata in apparente disordine. Mentre mi
avvicinavo, la sagoma assumeva contorni sempre più definiti: mi
ero sbagliato, non era una rete da pesca.
Si muoveva, i movimenti erano lenti e molli,
come di un qualcosa che cresceva contorcendosi, si materializzava.
Feci ancora qualche passo e la cosa assunse finalmente fattezze umane.
Ebbi paura, non per quello che vedevo, avevo paura di quello che avevo
dentro, delle mie emozioni, dei miei pensieri, del mio cuore troppo inaridito,
disabituate ai sentimenti e alle lacrime.
Al rumore dei miei passi si voltò,
sorrise e disse:
- Mi aiuti? Si è impigliato
l'amo proprio nello scoglio qui sotto.
Trasalii, non per la richiesta fattami, ma
per chi me l'aveva fatta. Era un vecchio di circa settant'anni con un cappellaccio
unto, calcato fino alle orecchie, la pelle grinzosa e il sorriso bianchissimo.
Ero deluso, inveii contro il mattino incantato che si era rivelato un fallimento.
Aiutai il vecchio, e con due rapidi movimenti del mio giovane braccio riuscii
a districare l'amo, e senza parlare glielo riconsegnai. Questi continuò
a sorridere e fissò il suo sguardo nel mio, uno sguardo stonato.
Poi disse:
- Cosa fai qui, in questo posto di
vecchi?
- Passeggio. - risposi, e stavo per
allontanarmi, ma la voce del vecchio mi bloccò.
- Credo proprio che tu mi stia mentendo…
Lo guardai forse con un sorriso ironico.
- Cosa glielo fa pensare?
Anche il modo di parlare del vecchio era stonato,
volto da pescatore, abiti dimessi ma parlava come uomo di una certa cultura.
- Ti conosco troppo bene, - fece una
pausa ad effetto e continuò: - Arrivati alla mia età si può
dire di conoscere un po' tutti, e di capire se qualcuno dice bugie. Tu
stavi cercando qualcuno e sei rimasto deluso di aver trovato me, non è
vero?
Era vero. Ed il vecchio cominciava ad innervosirmi.
Ah, certo, era dotato di un buon intuito, ma tutto qui!
- Cercavo un amico. - dissi piuttosto
freddamente.
Il vecchio sorrideva sempre ed ora cominciò
anche ad annuire col capo.
- Cercavi un amico. - ripeté
spegnendo il sorriso e guardando nel vuoto. - Anch'io avevo un amico una
volta, ma poi mi ha abbandonato, o meglio, mi ha dimenticato, sepolto dentro
di sé, per il solo fatto che non poteva più vedermi ogni
giorno, e così…
Si fermò, rimise il suo sguardo stonato
nel mio e quasi con tristezza disse:
- E tu, l'hai dimenticato il tuo amico?
Non risposi, non sapevo che dire, volevo andarmene,
sentivo il sangue ronzare nelle orecchie.
Il vecchio attese la risposta che non ci fu
e poi disse:
- Vuoi andartene? Vuoi scappare via
perché hai paura di invecchiare come me. Vai, vai pure, ma ricorda
una cosa molto importante; le cose che si dimenticano, che si vogliono
dimenticare, invecchiano molto più rapidamente di quelle che si
ricordano spesso. Vai adesso, perché devo continuare a pescare,
devo prendere altri due pesci per mangiare stasera.
E si rimise a pescare ignorandomi completamente.
Mi allontanai lentamente. Volgendomi indietro
spesso. La figura del vecchio pian piano si ritrasformò in
una sagoma nera inerte, senza vita: una rete da pesca ammucchiata in apparente
disordine
Le barche giocavano rumorosamente con l'acqua,
i gabbiani urlavano dall'alto e i miei passi suonavano pesanti sulla banchina.
Iniziarono a cadere le prime gocce di pioggia. |